– prima parte, anni ’60 –
Ritorno alla terra? Intervista a chi dall’agricoltura non è mai andato via
In un periodo di emergenza sanitaria in cui la produzione di cibo è tornata ad essere un tema centrale per tutti vogliamo raccontarvi la storia di un uomo che dall’agricoltura non è mai andato via e che anche in queste lunghe settimane è nei campi, a prendersi cura di ulivi e mandorli.
Abbiamo intervistato Michele Lobascio, il papà della famiglia Terradiva, colui che ha consolidato l’azienda agricola di famiglia molto tempo prima che nascesse il marchio. Dietro il marchio e la scelta dell’agricoltura biologica ci sono anni di esperienze, fatiche, battaglie, relazioni umane, cambiamenti nel Sud Italia e nel modo di essere agricoltori.
L’intervista si compone di due parti, questa è la prima.
Quali sono i tuoi primi ricordi legati all’agricoltura?
Vado nei campi dall’età di 7 anni, allora davo una mano a mio padre, avevamo anche gli animali: il cavallo, il mulo, la giumenta. Noi bambini aiutavamo gli adulti nella sorveglianza degli animali durante la controra, quando mio padre e i miei zii riposavano dopo pranzo. Loro lavoravano dall’alba, intorno alle 5 del mattino, fino al tramonto, dunque il primo pomeriggio era il momento del riposo degli animali e dei lavoratori prima di ricominciare.
A cosa servivano gli animali nel lavoro agricolo?
Gli animali ci aiutavano per l’aratura dei terreni, erano i trattori dell’epoca. Erano importanti anche per il trasporto delle merci e gli spostamenti tra il paese – Minervino Murge – e la campagna. Col carro trainato da mulo e giumenta impiegavamo due ore di viaggio per raggiungere i campi che mio padre allora coltivava sulla Murgia.
L’aratura del terreno è un’attività molto importante per la coltivazione delle piante poiché permette di dissodare le zolle di terra e dunque di rendere il terreno più ospitale per le piante coltivate. Durante la mia infanzia aravamo grazie agli animali e impiegavamo l’equivalente di 3 attuali giornate lavorative per arare un ettaro di terreno, oggi invece riusciamo ad arare un ettaro di terra in due ore.
Altre attività in cui aiutavo mio padre erano la raccolta delle olive, la vendemmia e il trasporto degli scarti della potatura dei vigneti e degli ulivi, li ammucchivamo con i miei fratelli e cugini fuori dal campo.
Da bambino quale era la tua immagine del lavoro dell’agricoltore?
Un lavoro faticoso, perché come contadino sei costretto a restare sotto le intemperie: il sole, il vento, la pioggia, il freddo. Non mi piaceva questo aspetto. Allo stesso tempo percepivo il lavoro dell’agricoltore come autonomo nell’organizzazione: seppure da mezzadri mio padre e mio nonno erano liberi di organizzare le loro attività come meglio preferivano.
Cosa significava essere mezzadro?
La mezzadria era una forma di conduzione dei terreni: il padrone metteva a disposizione il terreno di proprietà, i braccianti il lavoro, le braccia e l’organizzazione.
Originariamente il raccolto era diviso al 50% tra padroni e braccianti, poi ci furono delle lotte condotte dai braccianti che riuscirono ad aggiudicarsi il 60% del raccolto, più avanti i braccianti chiesero che il padrone acquistasse anche il concime.
Anche mio padre ad un certo punto lasciò la mezzadria, non era remunerativa. Ricordo ancora quando il padrone veniva a trovarci in campagna con la sua auto Fiat 1100: ci osservava e chiedeva a noi bambini di raccogliere le mandorle cadute per terra durante il trasporto delle reti, colme di frutti, dagli alberi al posto in cui le mettevamo nei sacchi. Noi poi le raccoglievamo.
In estate quando finiva la scuola vivevamo in campagna, non tornavamo in paese per almeno due settimane o un mese, bambini e adulti dormivamo tutti su un letto che mio padre costruiva all’arrivo con due balle di paglia.
Ci svegliavamo prima dell’alba e andavamo a letto subito dopo il tramonto. C’erano alcuni amici di mio padre che raccontavano delle storie, delle favole, dopo aver dato da mangiare agli animali e prima di andare a dormire. Gli animali venivano curati per bene, perché i muli e i cavalli erano i trattori di allora, venivano puliti e strigliati. I cani volpini erano continuamente intorno a noi e ci facevano compagnia – non so perché – i loro nomi erano sempre Giglio e Bobby.